Luca Lignitto, ricercatore alla New York University, racconta la situazione Oltreoceano
CORONAVIRUS STATI UNITI / Quasi 190mila contagiati, oltre 4mila decessi e quel rischio (250mila possibili vittime) che terrorizza: sono i numeri dell'emergenza coronavirus negli Stati Uniti, il Paese con più persone colpite dal Covid-19. Nelle ultime settimane il numero di contagiati è cresciuto a dismisura e ha costretto anche il presidente Trump a rivedere le sue posizioni, imponendo restrizioni simili a quelle attuate in Italia. E' New York il focolaio più importante ed è proprio nella Grande Mela che Calciomercato.it ha raccolto la testimonianza di Luca Lignitto, ricercatore italiano della New York University, da sette anni negli Stati Uniti.
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Nelle ultime settimane i contatti con l'Italia si sono per forza di cose intensificati, anche perché Luca a New York ha vissuto dieci giorni di grande ansia: “Tutto è iniziato tre lunedì fa, quando la mia compagna, infermiera, entra in contatto con una paziente poi risultata positiva al coronavirus. Quel giorno la signora era in crisi respiratoria e lei l'ha soccorsa prima che fosse trasportata in terapia intensiva dove la donna è deceduta. In quel periodo il virus negli Stati Uniti era ancora poco diffuso, quindi anche noi non abbiamo subito pensato al Covid-19. Il venerdì sono arrivati i risultati del tampone della donna: positivo. A distanza di un paio di giorni alla mia compagna è arrivata la tosse: ha subito avvisato i superiori e ha deciso di mettersi in quarantena. A distanza di poche ore anche a me è arrivata tosse e dopo 3-4 giorni la febbre alta ad entrambi: lei è riuscita a sottoporsi al tampone, mentre a me è stato sconsigliato dal medico. Per fare il test è, infatti, necessario recarsi in ospedale e il rischio di contrarre l'infezione – se non già contagiato – sarebbe troppo alto. Così siamo rimasti in quarantena entrambi, in attesa dei risultati arrivati dopo una settimana: il tampone è risultato negativo, anche se i medici ritengono non siano affidabili al 100%. I sintomi, infatti, erano quelli classici del coronavirus e anche la perdita del gusto una volta passata la febbre fa pensare ad un raro, ma non impossibile, falso negativo”.
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Ora a sintomi passati si può tirare un sospiro di sollievo ma la situazione negli Stati Uniti non è semplice: “Noi siamo da tre settimane chiusi in casa, le restrizioni ci sono da un po' meno tempo. Sono simili ma non identiche a quelle italiane. Dal venerdì in cui noi abbiamo ricevuto i risultati del tampone hanno chiuso le scuole e le Università, così come le attività non collegate a servizi essenziali. E' consentito però correre e passeggiare, così come restano aperti i parchi”. Un problema visto che la gente continua ad essere in strada: “Beh, sì. Proprio per questo si parla di ulteriori restrizioni, come la chiusura dei parchi come avvenuto in Italia”.
Una necessità considerato che il sistema sanitario americano garantisce livelli di assistenza elevati soltanto a chi è in possesso di un'assicurazione: “Qui se hai un lavoro e una buona assicurazione ti curano – spiega Lignitto a Calciomercato.it – , altrimenti…” Ovvio quindi la preoccupazione dei familiari: “Da quando è iniziata questa storia, la videochiamata con i miei genitori e mio fratello è quotidiana”. E se la nostalgia dell'Italia finora si è fatta sentire poco “per la prima volta sto pensando che chi vive in Italia è fortunato“.