Luigi Iannacone racconta la giornata di chi vive da protagonista la lotta al Covid-19
CORONAVIRUS LUIGI IANNACCONE COTUGNO NAPOLI / Un bambino smilzo, sulle spalle uno zaino che si fa sempre piĆ¹ pesante fino a diventare un macigno: ĆØ il peso che si porta dietro Luigi, infermiere presso l'U.O.C di Anestesia, Rianimazione Terapia Intensiva dell'Ospedale Cotugno di Napoli. Il suo ĆØ il peso che si porta sulle spalle ogni persona che in questo momento combatte la difficile battaglia contro il coronavirus in prima linea, nella trincea che sono diventati gli ospedali italiani. LƬ dove il dolore fa parte della quotidianitĆ , vissuto isolati dal mondo, dietro una mascherina che segna il viso o peggio ancora in una terapia intensiva, sperando – addormentati – che gli occhi potranno riaprirsi e tornare ad abbracciare i propri cari.
Luigi Iannacone, in esclusiva a Calciomercato.it, racconta il suo quotidiano contributo alla lotta al Covid-19: “Lavoro da sei anni come infermiere, da due al Cotugno: non avrei mai pensato di trovarmi ad affrontare una pandemia. C'ĆØ chi sceglie di essere infermiere e chi si ritrova a farlo: a farlo sono bravi tutti, esserlo perĆ² ĆØ un'altra cosa”. Esserlo ĆØ una quotidianitĆ fatta di notti fuori casa, doppi turni, festivi lontano da casa e “la vita privata come tessere di un puzzle da incastrare tra un turno e l'altro”. Una quotidianitĆ resa ancora piĆ¹ difficile dall'esplosione del coronavirus: “La mia ĆØ cambiata come tutti, mi sento defraudato della libertĆ che forse, erroneamente, abbiamo dato per scontato per troppo tempo. Anche a lavoro ĆØ cambiata:Ā aĀ fine turno si ĆØ stanchi fisicamente. I dispositivi di protezione fanno male sul volto e le tute di biocontenimento fanno sudare tanto. Ma si ĆØ stanchi soprattutto psicologicamente. Ogni volta che mi vesto lo faccio con la consapevolezza che per diverse ore non potrĆ² bere, andare al bagno o semplicemente grattarmi il naso. Per ore respiro all'interno di una mascherina, cosƬ stretta che in alcuni momenti giurerei di non riuscire a respirare. Il caldo delle tute non aiuta. Il sudore inizia a colare dalla fronte bruciandomi gli occhi e lasciandomi un retrogusto amaro sulle labbra”.Ā
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Una sensazione non facile che la mattina, quando suona la sveglia ti faĀ venir voglia di spegnerla e continuare a dormire: “Una parte di me vorrebbe tanto farlo, restare a casa al sicuro, senza alcun rischio contagio. Un'altra parte mi sprona invece ad alzarmi, a dare il mio contributo.Ā Sarei bugiardo a dire di non avere paura: ce l'ho ogni giorno che esco di casa. Paura di positivizzarmi, di finire in quarantena, di non poter tornare a casa e rivedere la mia famiglia. Ma nonostante mi senta vulnerabile, ogni giorno sono lƬ, nella mia rianimazione, a fare del mio meglio per i miei pazienti”.
Fare il massimo, nonostante il peso del dolore altrui: “ImmaginateviĀ un bambino delle elementari dal fisico smilzo che avanza verso scuola con in spalla un grosso zaino pesante. Ć cosƬ che spesso ci sentiamo. Si pensa che con gli anniĀ il tuo cuore diventi di ghiaccio e che i problemi e il dolore altrui non ti tocchino piĆ¹ in alcun modo. Non c'ĆØ cosa piĆ¹ falsa. Certo, l'esperienza ti insegna a scindere la tua vita privata da quella lavorativa, ma non sempre ĆØ possibile.Ā Chi sceglie di essere infermiere ĆØ consapevole che il dolore e la sofferenza altrui faranno parte della propria quotidianitĆ . Ma il dolore deve essere solo una parola, non una sentenza”.
“In psicologia si definisce 'Il dolore dei curanti', una lenta e silenziosa sofferenza che nasce dal continuo e incessante contatto col dolore dei malati, un dolore dai mille aspetti. Ć il dolore della realtĆ della morte, della menomazione, della paura del male fisico, della solitudine ospedaliera, dell'impotenza, della perdita dell'autonomia, della separazione degli affetti e dalla propria vita che forse non sarĆ piĆ¹ come quella di prima. Quando un paziente condivide con te il suo dolore ĆØ come se tu in qualche modo riuscissi in parte a strappaglielo, alleggerendolo. Ma tu sei da solo, i pazienti sono tanti. A fine giornata hai sul groppone un bel po' di dolore altrui, come se lo zaino di quel bambino diventasse a fine giornata un grande macigno“.
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Un macigno reso ancora piĆ¹ pesante da questo nemico invisibile che isola le persone: “Nei reparti di degenza il paziente ĆØ solo e non sarĆ possibile per lui avere contatti diretti la famiglia. Il tutto ĆØ reso ancor piĆ¹ stressante perchĆ© la persona si trova circondato da figure avvolte da spesse tute in plastica con visi nascosti da occhiali e mascherine.Ā Qui subentra poi la nostra capacitĆ nel saper dosare le giuste parole per tranquillizzare chi abbiamo di fronte e fargli capire cosa sta succedendo. Da noi in terapia intensiva le emozioni sono ancora piĆ¹ amplificate. Siamo consapevoli che il nostro sarĆ lāultimo sguardo che il paziente vedrĆ prima che la sedazione inizi a fare effetto ed i nostri occhi saranno poi i primi che rivedrĆ quando si risveglierĆ dopo tanti giorni”. Ma forse va ancora peggio ai familiari, costretti ad attendere notizie date per telefono: “La loro ĆØ la situazione piĆ¹ drammatica: ricevono solo telefonicamente aggiornamenti sulla salute dei loro cari.Ā Ć una sensazione simile a quando un nostro famigliare si sottopone ad un intervento chirurgico: le porte della sala operatoria si chiudono e si resta per ore senza sapere cosa sta succedendo.Ā Ecco, se amplifichiamo centinaia di volte quello stato animo fatto di paura, ansia e impotenza, forse potremmo iniziare a capire cosa prova un familiare che resta a casa. Ć inevitabile per loro porsi domande pensando al proprio caro, interrogativi come 'ChissĆ se ci rivedremo'. PerchĆ© ĆØ inutile nasconderlo, purtroppo in tanti muoiono. E non c'ĆØ neanche la possibilitĆ dell'ultimo saluto.Ā CiĆ² che ti lacera profondamente ĆØ che il Coronavirus ti lascia morire da solo”.
Coronavirus, Luigi Iannacone: “Non siamo eroi, che sollievo l'affetto della gente”
Soli perĆ² i malati non sono, perchĆ© l'Italia ha scoperto anche eccellenze che prima sembrava nascoste, come appunto il Cotugno: “C'ĆØ sicuramente orgoglio, ma anche un pizzico di rabbia: siamo da sempreĀ un centro di riferimento regionale per la cura di malattie infettive come meningiti o per il trattamento dei pazienti sieropositivi. Lāattenzione avrebbe dovuto riceverla giĆ da tempo. Per anni la gente ha guardato al nostro nosocomio con distacco e paura, trattandoci come appestati”.
Ora, invece, medici e infermieri assurgono al ruolo di eroi: “Non lo siamo: ĆØ il nostro lavoro, la nostra parte.Ā Continuiamo a fare ciĆ² che abbiamo da sempre fatto, solo in condizioni di protezione diverse. L'affetto della popolazione ĆØ un toccasana per le nostre giornate. Lo si percepisce eccome. Una mattina recandoci a lavoro abbiamo trovato uno striscione in stoffa affisso alle grate dell'Ospedale con un colorato 'Grazie' da parte di un dodicenne. Anche molti ristoranti, pasticcerie e note catene alimentari ci hanno fatto omaggio delle loro prelibatezze. Per molti potrĆ sembrare un gesto banale, ma in un momento cosƬ particolare anche bere un semplice caffĆØ e gustare un cioccolatino per 'staccare'la spina quei pochi minuti durante un turno di lavoro non ĆØ cosa da poco”.Ā
CosƬĀ come non ĆØ cosa da poco continuare a restare a casa per evitare che tutti i sacrifici fin qui fatti vadano sprecati: “Alla gente che non rispetta le restrizioni viene voglia di raccontargli un turno di lavoro,Ā descrivergli cosa significa per un paziente positivizzarsi al virus, ospedalizzarsi, allontanarsi dai propri cari o peggio venire intubato. Vorresti tanto fargli capire che il 'Restate a casa' non ĆØ solo uno slogan in voga, ma ĆØ l'unica soluzione attualmente utile per limitare i contagi. Ć importante che la gente capisca che non esiste ancora una cura definitiva per questo virus, e che anche il miglior medico ĆØ impotente nei confronti di questo microorganismo. Per questo ribadisco: “Restate a casa. Aiutateci ad aiutarvi””. E anche a rendere meno pesante quello zaino reso un macigno dal peso del dolore.Ā