Il ct Mancini è parso sfiduciato ieri, la sensazione è però che ci si sia fermati a quell’Europeo: ora servono solo riforme
Chissà perché qualcuno aveva deciso di prefigurarla, e attenderla, e persino viverla come la partita del rilancio. In realtà Italia-Argentina, ieri sera a Wembley, è stata molto peggio (e non doveva essere così difficile pensarlo) di Italia-Macedonia del Nord: perché la partita che ci ha tolto per la seconda volta di fila la partecipazione a un Mondiale aveva tutte le ragioni per portarsi dentro la speranza, poi tristemente disillusa. Ieri no. E il no va detto chiaro, senza esitazioni del timbro. A voce alta. Ieri l’Argentina ci ha lasciato una serie di segnali inquietanti, uno dentro l’altro, uno dietro l’altro. E non ci è voluto molto per capirlo. Una pia illusione durata lo spazio di meno di mezzora, spezzata dal gol di Lautaro.
Da lì l’Italia è sparita, travolta nello spirito, nel gioco, affondata da Di Maria (che la Juve si sbrighi se Angel è ancora questo) e da un’altra nostra conoscenza, Paulo Dybala, ripudiato a Torino e subito pronto a far cominciare la carrellata di rivincite: intanto inchiodandoci ad uno dei più umilianti 3-0. E pensare che non li battiamo dal 1987 in amichevole (era il 10 giugno, ct Vicini). Peggio se pensiamo al Brasile: l’ultimo successo azzurro è dolcissimo nei ricordi di chi c’era, quello che ci ha portato poi a vincere il Mondiale in Spagna, ma si perde appunto nella notte (pur magica) dei tempi: 5 luglio 1982.
Ecco, se pensiamo a quelle vittorie e a quegli anni, come all’Italia campione del mondo nel 2006, dobbiamo serenamente dirci che eravamo altro. Ben altro. E che eravamo migliori, molto migliori. Il problema di questi anni è una sorta di supponenza con cui siamo andati avanti senza volerci rendere conto come l’Italia sia diventata un punto di passaggio e non di arrivo per giovani talenti, o una sorta di pensionato per star a fine giro. Il problema è crogiolarci in un mercato interno senza sbocchi che è partito dai 100 milioni per Belotti solo tre anni fa (li ricordate? non bastavano… quanto sarebbe dovuto valere Ciro Immobile? 400??) e che oggi banca molti degli azzurri di ieri a Wembley tra gli 80, i 50 e i 40 milioni.
Forse è davvero il caso di fermarsi e riformare. Non parlare di riforme per una settimana dopo la Macedonia del Nord e arrivare – ieri – a immaginare Italia-Argentina come la partita del rilancio. L’Italia del calcio sembra dentro una delle crisi più nere, dove bisogna mettere via gli slogan e trovare le soluzioni. Guardando anche a modelli come quello tedesco all’atto della loro crisi, ormai datata oltre i vent’anni: il Mondiale del 1998 e l’Europeo del 2000 portarono ad una revisione totale del modello, iniziando dalla tecnica per arrivare agli stadi e ai vivai. Ma sul serio: nel senso che vennero distribuiti – per esempio – soldi a pioggia a chi investiva sulle infrastrutture per i settori giovanili. Ecco, anziché supporre di essere i migliori, guardiamo magari a chi ci è passato prima e si è rialzato.
Ultimo passaggio: il ct. Ieri Mancini è parso sfiduciato. E non è poco per uno che – non dimentichiamolo, ancora meno di un anno fa ci ha portato a rivincere un Europeo dopo una vita. La sensazione è però che ci si sia fermati a quell’Europeo. Confermare Mancini è stato un atto di forza che qualche giustificazione poteva anche averla quando è stato deciso di farlo. Ma ora bisogna monitorare, capire, chiedersi tutti quanto possa essere giusto andare avanti e per quanto. All’orizzonte (non ora), ma scavallato il Qatar che ci vedrà spettatori, gli scenari potrebbero cambiare. Pensiamo all’estate 2023: cosa faranno Allegri, Spalletti, dove saranno? Lui si è un po’ sfilato ma aggiungiamo noi… Ancelotti? E’ uno scenario fluido in cui senza voler dare la colpa al ct – che forse ha solo la sfortuna di essere nel posto giusto al momento sbagliato – qualche domanda bisogna porsela. Una cosa è certa: cambiare ct – quando mai sarà – arrivando a questa decisione con l’inerzia di essere rimasti a guardare su tutto il resto, non servirà a nulla. Riforme, riforme, riforme. Vere.
Giorgio Alesse
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