Sette gol, due in finale contro la Francia, per Leo Messi, capitano dell’Argentina campione del Mondo 2022 al suo ultimo Mondiale
L’Imperatore è lui, quello unisce l’Argentina, la Francia e il Qatar in una sintesi straordinaria. Era anche il più atteso, inutile nascondersi. E vedere evaporare Cristiano Ronaldo ha reso il Mondiale di Leo Messi in qualche modo ancora più costretto in una direzione: quella della vittoria. Avesse abdicato anche lui sarebbe stata la fine di un’epoca, la sua deflagrazione. E invece no, la Pulce ha alzato la voce e la Coppa: riscattando un popolo intero e riportandolo in cielo 36 anni dopo.
Quel 29 giugno 1986, all’Azteca di Città del Messico, l’Argentina vinceva il suo ultimo Mondiale ma lui, Leo Messi, non c’era. Non era nemmeno l’idea del campione che sarebbe diventato. Papà Jorge Horacio e mamma Celia Maria avrebbero messo il fiocco azzurro un anno dopo, il 24 giugno 1987, fuori dalla porta di casa a Rosario. Leo bambino è cresciuto coltivando il suo sogno di campione, mentre Diego – e Diego è uno, Maradona – vinceva a Napoli, incoronato re da due popoli, il suo argentino e quello partenopeo, sparso per il mondo.
Leo cresce, supera i problemi fisici rari – che il Newell’s non può aiutarlo a risolvere per il costo esorbitante delle cure necessarie – quando arriva in Europa, ‘adottato’ calcisticamente dalla casa nobile del Barcellona. E comincia l’ascesa che tutti hanno visto stropicciando gli occhi. Serve qui ricordare i trofei vinti, i record polverizzati, le Università del mondo che ne hanno studiato pregi e qualità a livello tecnico? Non serve perché è tutto archiviato e arcinoto. Come i sette Palloni d’Oro. La Pulce ha costruito il suo percorso da star quasi sotto traccia, facendo parlare il campo e parlando poco. Tanto che questa versione di Qatar 2022 è parsa piuttosto insolita e sorprendente: Leo ha mostrato i muscoli, ha discusso, litigato, quasi forse sentendo il peso dell’ultima chance.
E se manca un Mondiale ad una carriera così non si può negare che manchi qualcosa di grande. Lo ha rincorso arrivando a sfiorare quella coppa con le mani nella terra rivale, il Brasile: a Rio, in quel 13 luglio del 2014, nella piena maturità dei 27 anni, Messi si è dovuto inchinare alla Germania nei tempi supplementari. Quella finale gli è rimasta negli occhi dopo che nel 2006 aveva visto dalla panchina l’eliminazione sempre con i tedeschi ai quarti e nel 2010 si era stoppato, ancora ai quarti e ancora contro l’incubo Germania: quella volta con un umiliante 4-0. Niente, seppur in dimensioni più contenute, rispetto alla finale che avrebbe giocato quattro anni dopo. In Russia, ancora con la fascia di capitano al braccio come a Rio, il viaggio è finito agli ottavi contro la Francia.
Stavolta era davvero l’ultima. E tutto è cominciato con il brivido Arabia Saudita che avrebbe potuto sgretolare ogni gruppo e ogni sogno. Non la lui, non la Pulce e i suoi compagni. Testa bassa, Leo ha continuato a pensare ad una cosa sola, al suo sogno, che poi coincide con il sogno di una nazionale e di un popolo. Ora, per cortesia, evitate accostamenti, paragoni: immaginate solo che lassù ci sia uno a palleggiare con un’arancia e a far festa con il suo popolo. Quello è Diego. Leo sta qui, è figlio di un altro tempo, di un altro calcio. Ma fa festa anche lui con il suo popolo. E alza la Coppa anche lui come Diego. Non bisogna somigliarsi per forza o superarsi per essere grandi.
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